Figurazioni del Demone del racconto in César Aira e dintorni │ Altre Modernità

por Amanda Salvioni para Altre Modernità │ Ensayo │ Noviembre de 2017

 

L’ULTIMO DI CÉSAR AIRA (Fragmento del ensayo)

Quasi contemporaneamente a Entre los indios, nel 2012, è apparso il romanzo La última de César Aira, dello scrittore argentino Ariel Idez. Il giovane autore inventa in questo libro una trama tipicamente airiana, in cui Aira, denominato il Demiurgo di Flores, incarna il male assoluto che incombe sulla città di Buenos Aires. Protagonista del romanzo è l’anti-eroe dal significativo nome di Dante, detto anche Il nano più sexy del mondo, un passeggiatore di cani con velleità letterarie che soffre di un blocco creativo. Ossessionato dalla pagina in bianco, Dante scopre casualmente con angoscia una  strana coincidenza: tutte le case editrici del paese si stanno preparando a lanciare l’ultimo libro di César Aira. Non tarderà a rendersi conto che la spettacolare uscita editoriale cela una trama tenebrosa concepita dal genio del male, il  diabolico  Aira, capo di una setta segreta che popola, come nell’incubo più celebre della narrativa argentina, El informe sobre ciegos di Ernesto Sabato, i sotterranei di Buenos Aires. Nelle sue peripezie Dante è accompagnato da coprotagonisti contrassegnati da epiteti accattivanti, come la Sartina di Pringles, spin-off di un personaggio del romanzo di Aira La costurera y el viento (1994), una prostituta vergine, conosciuta da Dante in  un bordello di proprietà di Aira; lo Spacciatore letterario, un paranoico libraio clandestino con manie di persecuzione; il Tipico frocio nazista, un caro amico d’infanzia di Dante; lo scrittore/personaggio Luis Chitarroni, peraltro fondatore, nella realtà,  della  casa editrice La Bestia Equilátera, frequentata dallo stesso Aira; e altre pittoresche entità, come la confraternita dei passeggiatori di cani, l’associazione dei  taiwanesi peronisti,  gli skinheads del Parque Saavedra, e così via.

L’operazione di Idez è chiara fin dall’incipit: il romanzo si apre con l’incontro fra il protagonista e il suo amico Joaquín, fondatore di una minuscola casa editrice che in realtà deve ancora vedere la luce. I due si scambiano poche illuminanti parole: César Aira in persona ha chiamato Joaquín per offrirgli il suo ultimo romanzo da pubblicare nella sua ancora inesistente impresa editoriale. Di fronte all’incredulità di Dante,  Joaquín insiste euforico:

Sí, Dante, yo tampoco podía creerlo, primero pensé que era una joda, y le seguí la corriente para ver qué pasaba. Menos mal, era Aira de veras. Por la voz no podía distinguir, porque habla tan bajito y no dice casi nada, cualquiera podía estar imitándolo, pero me convencí cuando nos envió un mail con el primer capítulo. (Idez: 7)

La dichiarazione di apertura di Joaquín va dritta al cuore della questione: chiunque può imitare l’emissione vocale, flebile e laconica, dell’Aira in persona, ma la sua scrittura è unica, depositaria di un marchio di fabbrica inconfondibile e inimitabile.  Il capitolo di romanzo inviato dal Demiurgo di Flores all’editore in erba è “cien por ciento Aira” e, a riprova della paternità certificata del testo, Joaquín snocciola una sinossi avventurosa e fantastica le cui caratteristiche riproducono esattamente quelle dello stesso romanzo di Idez: una situazione iniziale triviale e lievemente assurda, segnata da un elemento di instabilità la cui crisi porta allo sviluppo vertiginoso di una trama in perenne movimento. L’inimitabile scrittura di Aira è, di fatto, imitata dal romanzo stesso in cui Aira agisce come personaggio. Ma la mise en abîme non si esaurisce qui, né sembra essere fine a se stessa. Tra le pieghe della trama “tipicamente airiana” del romanzo di Idez, si cela, infatti, una lettura critica dell’intero progetto narrativo di Aira, condotta dall’interno del sistema, come se, simulando di appartenere allo stesso flusso discorsivo di Aira, se ne volessero svelare i meccanismi, sospendendo  il giudizio estetico. Un monologo interiore di Dante recita infatti:

Es sospechoso hablar de categorías como mejor o peor en la obra de César Aira, un autor que se preocupa más por el proceso de producción que por el  resultado  final; ahí el azar tenía mucho que ver, las impresiones cotidianas, el continuo perceptivo, cada novela era el resultado de una partida de dados. (Idez: 23)

Tuttavia, le interpretazioni e le ipotesi di lettura disseminate nel testo non sono sempre originali, ma obbediscono piuttosto a luoghi comuni abbastanza consolidati della critica,6 al punto da apparire come ammiccamenti al lettore colto, per  la  precisione al lettore accademico, perfettamente avvezzo a manipolare le raffinate categorie teoriche e gli eruditi riferimenti culturali che popolano la bibliografia  sul tema. Inoltre, a ben vedere, le interpolazioni critiche della voce narrante sembrano rimandare a un tratto tipico della prosa di Aira, ovvero le continue e improvvise notazioni metaletterarie che più volte interrompono il flusso narrativo dei  suoi  romanzi.

Da un altro punto di vista, il romanzo di Idez sembra voler riflettere sul funzionamento del campo letterario in Argentina, che gira intorno a un autore che si è volutamente posto ai suoi margini, stravolgendo poco a poco le sue  leggi,  a cominciare da quelle del mercato. E allora, c’è qualcosa di osceno nell’entusiasmo iniziale di Joaquín: inaugurare una casa editrice con un libro di Aira significa avere da subito il prestigio assicurato, “las reseñas en los suplementos culturales de los principales diarios, y unos 300 ejemplares ubicados de antemano, que ya amortizan la inversión. Más la presentación del libro, los contactos, la distribución…” (Idez: 8). Di fronte alla crisi creativa di Dante, la venalità e il cinismo dell’editore in erba sembrano alludere al carattere infernale e corrotto del mercato editoriale, prima ancora che questo si manifesti chiaramente nella trama. Ben presto, infatti, l’ultimo di César Aira si rivelerà una maledizione, la trappola maligna tramata dal Demiurgo di Flores per assumere il controllo sulla capitale.

Ma il campo letterario argentino, oltre che da un mercato così demonizzato, è anche costituito da figure di intellettuali che incarnano, spesso simultaneamente, i molteplici ruoli che il campo stesso richiede per poter funzionare come tale:  lo  Scrittore, il Critico e l’Editore. È il caso di Luis Chitarroni, il Guru della Letteratura Argentina che, insieme ad Aira e al poeta Arturo Carrera, costituisce uno dei personaggi/scrittori che la finzione prende in prestito dalla realtà. Dante andrà a trovarlo per chiedergli spiegazioni circa il carattere demoniaco del Demiurgo di Flores. Sarà il linguaggio, in questo caso, il tratto caratterizzante del personaggio.  Alla  semplice e terrificante menzione del nome di Aira, Chitarroni si ritrae dietro una nebulosa cortina di termini ed espressioni tipiche del linguaggio accademico, quella koiné del campo letterario argentino, autoreferenziale e quasi gergale, che qui appare ridicolmente destituita di ogni senso.

Bah, en realidad no comprendo nada puesto que ya sabemos: “no se puede comprender”, pero eso es todo lo que es el caso, es decir, el mundo, y no una muestra histológica del tejido que conforma la superficie  del  discurso  como  el que usted expone, pero basta, en fin, con estas disquisiciones tan poco afines al género dialógico, comprendo. Por lo tanto, atengámonos básicamente a la ficción del sentido, su punto. Estamos hasta las bolas. (Idez: 106)

Non diversamente reagisce Arturo Carrera, il poeta originario di Pringles che già aveva subito la sorte di vedersi tramutato in personaggio proprio in un libro di Aira, dando vita alla memorabile figura di Arturito in Como me hice monja (1993). Le cose,  qui, sembrano complicarsi: mentre l’inquietante Arturito, nel mondo allucinato della “bambina” César Aira, voce narrante di Como me hice monja, è il responsabile di un perturbante trauma infantile della protagonista, l’Arturo Carrera del romanzo di Idez, invece, appare come la vittima tremebonda del diabolico Aira, traumatizzato per sempre dalle crudeli angherie del suo “amico” d’infanzia. Il suo ruolo, nel  testo,  è  quello di confermare i peggiori sospetti di Dante sull’infausta possessione  del Demiurgo di Flores.

Per riassumere, gli interventi metaletterari del romanzo di Idez sono ammiccamenti al lettore o tratti mimetici della prosa di Aira; la critica al mercato editoriale è iperbolica e paradossale; l’evocazione del campo letterario nazionale ha un mero intento parodico. E allora, dove vuole veramente arrivare questo romanzo dichiaratamente contraffatto, popolato da identità reali, convertite in personaggi appiattiti dal peso del loro ruolo attanziale? Verrebbe da dire che in primo luogo il romanzo punti alla dimostrazione della sua tesi iniziale, ovvero l’unicità inimitabile del “fattore Aira”. La semplice mescolanza dei tratti caratteristici della scrittura airiana – l’ironia, la comicità grottesca, l’immaginazione sfrenata, gli interventi metaletterari, la velocità del racconto, l’espansione vertiginosa delle peripezie nello spazio – che Idez mette insieme, non bastano a sintetizzare in laboratorio il “fattore Aira”, ma anzi testimoniano la sua irriducibile resistenza a funzionare come modello.

Tuttavia, è possibile che ci sia un’intenzione più studiata. In uno degli interventi metaletterari di Dante, viene implicitamente menzionato uno dei numi tutelari del “fattore Aira”, ovvero Marcel Duchamp:

Después de todo cada libro de Aira es un poco como un objet trouvé, y bien podría ser exhibido en un museo junto con otros artefactos de igual inutilidad como el banquito de madera con una rueda de bicicleta engranpada en las asentaderas. (Idez: 65)

Il libro inteso non come opera concepita e prodotta secondo un ideale estetico, bensì come ready–made, come oggetto casuale che lo scrittore seleziona dal flusso del proprio discorso, a somiglianza della ruota di bicicletta selezionata dal fluire del reale  ed esposta da Duchamp come opera d’arte, è uno dei capisaldi della poetica di Aira, più volte enunciata, non solo nella finzione, ma anche nella produzione saggistica.7 Ebbene Idez sembra essersi voluto appropriare di uno di quegli oggetti casuali, e aver sostituito la firma di Aira con la propria, in un atto di sovrana irriverenza non solo nei confronti del prodotto dell’arte, coerentemente con la posizione avanguardista di Duchamp/Aira, ma anche nei confronti della nozione di autore.8 Ciò che rimane dell’opera è solo l’enigma della creazione artistica.

Resta da capire perché il personaggio Aira, nel romanzo di Idez, abbandoni  le vesti del benevolo demiurgo di un universo letterario lieve e irriverente, per assumere quelle dell’oscuro signore delle tenebre. Forse una risposta del tutto plausibile non è pertinente, se non a rischio, ancora una volta, di un eccesso di  interpretazione.  Tuttavia, ci si limita qui a segnalare che se il romanzo di Idez è una forma di esorcizzare l’angoscia dell’influenza provocata da un modello inimitabile, ebbene, appare chiaro che all’oggetto dell’esorcismo non può che venire attribuita una qualità demoniaca.  Ben lontana dalla natura metafisica del demone del racconto, che abbiamo visto delinearsi in Entre los indios, la demonizzazione di Aira nel romanzo di Idez rivela, da parte del giovane autore, nient’altro che la sadica tentazione del totale annientamento del suo modello.

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Nota original: https://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/download/9260/8755

O assassino da pátria: apontamentos sobre “La última de César Aira”, de Ariel Idez │ Bau de fragmentos

por Cario Ricardo Bona Moreira para Bau de fragmentos │ Enero de 2013

Quando todos imaginavam que César Aira seria para sempre apenas um escritor, acabamos, para nossa surpresa, sendo informados de que este renomado novelista contemporâneo se transformou no chefe do tráfico de drogas e dos prostíbulos do bairro de Flores, em Buenos Aires. E se não bastasse isso, o autor de “La Liebre” aliou-se a chineses subversivos, bem como aos membros da “Logia Lautaro”, seita de negros decididos a se vingarem dos brancos argentinos depois de séculos de exploração. Como se não bastasse isso, Aira também se transformou no responsável por um sistema clandestino de produção de livros, contando com o apoio de uma legião de “ghostwriters”, com o objetivo de destruir a Argentina por meio da circulação de uma infinidade de novelas, já que a sua publicação provocaria uma saturação por “sobrecarga no sistema simbólico” . Se partirmos do pressuposto de que a Argentina é uma personagem de Facundo (Sarmiento), ou seja, uma ficção, implodir o sistema simbólico – literário – do país, equivaleria a destruí-lo. Agora sabemos como e porque o conspirador Aira escreve tanto. Mas calma! Tomemos cuidado com as especulações e com conclusões precipitadas. Isto é apenas literatura. As informações – fictícias –  fazem parte apenas do enredo de “La última de César Aira”, primeiro romance de Ariel Idez, jovem escritor argentino, publicado pela promissora editora portenha Panico al Panico. Aira continua sendo Aira, no entanto, sua obra, com a publicação de Ariel, parece ganhar uma “dobra” – AIRA/ARIEL. É dela que pretendo tratar brevemente neste texto.Como se não bastasse isso…

Ariel Idez

Os livros de Aira, grosso modo, tendem, na medida em que seus enredos progridem, a caminhar, de um estado narrativo pautado pelo “comum”, pelo “qualquer”, pela “normalidade” a outro, cuja lógica é regida pelo “inusitado”, pelo “acaso”, pelo “acidente”, e pelo gradativo enlouquecimento dos acontecimentos e do pensamento que é pensado enquanto se narra. Suas histórias, geralmente, começam de forma aparentemente “simples”e “banal” para depois caminharem para o imprevisto, frustrando expectativas pré-moldadas pelos seus leitores. Basta lembrar de duas novelas: “Las Noches de Flores”, em que um casal de idosos decide trabalhar a pé na entrega de pizzas no bairro e acaba por se envolver em situações bastante absurdas. E “El Volante”, em que o escritor parte de uma propaganda para, então, migrar para o universo fabular – com direito a condessa e elefantes -, transformando todo o percurso narrativo em algo impensado no início da leitura.

As histórias que imaginamos ser contadas em ambos os livros na medida em que são narradas se mostram sempre imprevistas. Penso que este é um procedimento que se repete – com diferença – em quase todos os livros de César Aira. Aliás, o escritor explicita suas reflexões sobre a importância do “procedimento” para a sobrevivência do literário no seu conhecido ensaio que leva o título de “A Nova Escritura”. Vale relembrar o seu ponto de vista.

No ensaio, Aira apresenta o procedimento como uma ferramenta herdada das vanguardas capaz de reconstruir a radicalidade constitutiva da arte. Reconstruir a radicalidade da arte, para ele, significa, em tempos de esgotamento – sinônimo talvez de “civilização envelhecida” -, remontar às origens. O procedimento seria uma alternativa a outras por sua vez melancólicas, pautadas pelo interesse de seguir escrevendo a velha literatura ou de tentar heroicamente, como ele mesmo diz, “um ou dois passos adiante”. No contexto das vanguardas, terceira alternativa, o procedimento estaria ligado ao construtivismo, ao “ready-made”, à escrita automática, ao dodecafonismo, ao “cut-up”, ao acaso, etc, ou seja, a um “modo de fazer”, estando mais interessado na ação, no processo de confecção do que nos resultados: “Tem de se desinteressar dos resultados para permanecer sendo ação”. Colocar o “modo de fazer” na frente de o “que fazer”, ou dos resultados, é o que fez John Cage, em “Music of Changes”, peça descrita e analisada por Aira no texto. Não pretendo aqui esmiuçar a leitura do ensaio tendo em vista que meu objetivo é propor uma rápida leitura do romance “La última de César Aira”, de Ariel Idez.

Antes de seguirmos adiante, cumpre relembrar que Aira conclui que o procedimento, em geral, consiste em remontar às origens: “Daí que a arte que não utiliza de um procedimento, hoje em dia, não seja arte de verdade. Pois o que distingue a arte autêntica do mero uso da linguagem é justamente essa radicalidade”.

Produzir um procedimento (ou mimetizá-lo com criatividade) parece ser também o objetivo de Ariel Idez no romance que apresenta Aira como vilão. Enquanto Aira cria um procedimento pensando a literatura como uma espécie de absoluto – uma grande máquina de produzir imagens -, Ariel produz um procedimento pensando em desmontar a máquina de Aira. Desmontar, aqui, não significa destruir, mas apenas “brincar” e consequentemente fazer “conhecimento”, como aquelas crianças que desmontam seu brinquedo para divertir-se e também para conhecê-lo melhor.

O traçado narrativo do livro de Ariel é semelhante ao das novelas de Aira. É óbvia a aproximação. Ariel escreve um livro sobre Aira de forma aireana, o que demonstra que estamos diante de uma antropofagia, que aqui é também uma espécie de homenagem, mas não apenas. Resta-nos ler Aira a partir de Ariel, ou Ariel a partir de Aira.

As teorias contemporâneas talvez caracterizassem o livro de Ariel como um pastiche ou como uma paródia. Penso que talvez seja mais do que isso. Leonidas Lamborghini, em um dos textos que integram “El Riseñor”, interessado em discutir a relação de um texto com o seu Modelo, pergunta se não seria possível pensar na paródia como “impotência”, ou seja, como “la impossibilidad de emular al Modelo mediante otro procedimiento que no sea el burlesco imitativo”. Nesse sentido, a paródia é pensada como uma possibilidade que não necessariamente nega o Modelo: a paródia como um outro modelo. Se o livro de Ariel é uma paródia, devemos concordar que é uma paródia muito singular. Não existe para negar o modelo, nem simplesmente para homenageá-lo. Seu procedimento parece ser criado para pensar o Modelo, e consequentemente os rumos da literatura argentina. Assim como Aira, Ariel parece ser sério não sendo sério. Penso que também poderíamos ler o livro como um acerto de contas bem formulado do jovem escritor argentino com o vilão: “Eu também sei fazer”.

César Aira

Vejamos brevemente o seu enredo. Depois de ficar sabendo que seu amigo Joaquín, dono de uma nova e pequena editora, publicará um livro inédito de Aira, Dante, o Anão Mais Sexy do Mundo – que além de passeador de cães é também um escritor frustrado -, decide investigar o motivo de Aira publicar tantas novelas, muitas delas ao mesmo tempo. O personagem, então, começa a se envolver em uma série de peripécias ao lado de personagens curiosos como Leandro Tiressi, um vendedor de livros roubados, Figueraz, vulgo Puto Nazi, uma espécie de jovem neo-nazista, o Guru Chitarroni, Leslie Chueng, um taiwanes peronista que é também um ninja, Maira, uma prostituta virgem, entre outros, com direito à participação especial de Arturo Carrera. Paremos por aqui. Convém não contar o resto da história para não estragar a surpresa daqueles que ainda não a leram.

Basta observar que Ariel, ao passo que ficcionaliza Aira, aproveita para “desmontar”a sua obra. Vejamos uma passagem em que o Guru Chitarroni observa: “Aira se limitó a crear el procedimiento, un gran invento, por otra parte, no le restemos mérito, y después se desentendió del asunto. Una vez construida la máquina, puede poner a cualquiera a operarla. Y el procedimiento está ahí, multiplicado en sus novelas, como el algoritmo al que todas ellas se sustraen, al alcance de todos. Cualquiera pude echarle mano y escribir una novela de Cesar Aira, de hecho…”. O argumento metaficcional é divertido e esclarecedor. Segundo o personagem, a maquinaria de Aira pode ser usada por qualquer um. De forma irônica é o que faz o próprio Ariel ao fazer procedimento de Aira, suplantando a mera cópia.

Se a ideia do procedimento, para Aira, é colocar em xeque a “miséria psicológica” a que chamamos de “talento”, “estilo”, “missão”, e “outras torturas mais”, entram em uma outra dimensão os conceitos de cópia, influência, modelo, nação, ou mesmo paródia. Nesse sentido, penso que o livro de Ariel Idez é além de divertido uma máquina que nos permite pensar nos rumos da literatura argentina. Dessa forma, o livro positivamente, é mais ambicioso do que parece. Se o resultado do livro é o apocalipse e a consequente morte da nação – ou seja, da própria idéia de missão ou autenticidade – cabe pensar na sobrevivência do literário, aquilo que suplanta a própria ideia de nação como um todo organizado, ou da boa literatura como surgida da originalidade. Assim como Aira, Ariel, redobrando as dobras de seu “Modelo”, pensa a literatura como um absoluto capaz de suplantar a própria ideia de nação. A nação, para Ariel, também é uma ficção, assim como a ficção é o centro de seu território. E Aira parece ser aquele responsável por apertar o botão da bomba.

Chama a atenção no livro a parceria de Aira com uma infinidade de ghostwriters subterrâneos responsáveis pela escrita de sua obra. Como poderia um escritor escrever tanto? Aliás, é esse questionamento que motiva o Anão Mais Sexy do Mundo a investigar o caso. Como escritor frustrado, aterrava-o o contraste com a sua situação atual, “saber que cada tarde mientras el cursor de su computadora titilaba al ritmo del interrogante, en el otro extremo de la ciudad, en un bar de Caballito o Flores, César Aira, ese demiurgo literario, escribía sin pausa su próxima novela”.

Para finalizar, gostaria de lembrar da novela “O Mago” (que misteriosamente me veio na lembrança), em que César Aira cria um personagem que é mágico de verdade, mas não possui imaginação. Ou seja, possui o procedimento, mas não consegue manejá-lo, lhe falta tato e talento para isso. Ao longo do livro, depois de concluir que a magia é a sua realidade e de suspeitar de que, por isso, a sua realidade é fruto de sua magia (iMAGInAção) – ou seja, invenção ou devaneio – o mago encontra um grupo de editores que o motivam a escrever livros em série. Se era mágico poderia fazer aparecer muitas e muitas obras. Seria um escritor reconhecido e ganharia dinheiro. Por que não pensara nisso antes? Seguramente, despertaria nos leitores a desconfiança por escrever tanto, ou “mejor, podía dejar que pensaran que usaba escritores fantasmas a sueldo”. Por trás, estaria apenas o mágico e o seu procedimento. Ao contrário do Mago, Aira e Ariel, dobra e redobra, parecem possuir não apenas o procedimento, mas também a imaginação. De que vale uma literatura sem ela?

caio ricardo bona moreira

Nota original: http://baudefragmentos.blogspot.com/2013/01/o-assassino-da-patria-apontamentos.html

Ariel Idez, La última de César Aira (Fragmento) │ Fundación Tomás Eloy Martínez

Fragmento en Fundación Tomás Eloy Martínez │ Octubre de 2012

Compartimos un fragmento de La última de César Aira, una novela del escritor argentino Ariel Idez que publicó la editorial Pánico el pánico. El libro forma parte de la colección Potlach, donde se apunta a rescatar la literatura que creció a la sombra de los años noventa.

1

Joaquín llegó dando saltos hasta un extremo del Parque Saavedra donde se encontraba Dante, el Enano más Sexy del Mundo y le sacudió los hombros.

–¡Dante, Dante!

Era tal su excitación que casi lo tira al piso, con perros y todo. Dante apenas pudo conservar el equilibrio y, sin dejar de prestar atención a sus animales, le preguntó qué le pasaba.

–No, no. Esta no te la vas a poder creer.

Eran las 10 de la mañana de un miércoles otoñal. El Parque Saavedra se hallaba desierto a no ser por los colegas de Dante y algunos colegiales que, evadidos de sus obligaciones, se tiraban al pasto para escrutar el lento decurso de las nubes en el cielo. Por las ojeras de su amigo, El Enano dedujo que había pasado la noche en vela. Joaquín apenas podía contenerse.

–¿Te acordás de la editorial que íbamos a fundar con unos amigos?

–Sí.

–Bueno, no terminamos de dar forma al proyecto que nos llama César Aira para ofrecernos una novela inédita suya.

–¿En serio? ¿Aira?

–Sí, Dante, yo tampoco podía creerlo, primero pensé que era una joda, y le seguí la corriente para ver que pasaba. Menos mal, era Aira de veras. Por la voz no lo podía distinguir, porque habla tan bajito y no dice casi nada, cualquiera podía estar imitándolo. Pero me convencí cuando nos envió un mail con el primer capítulo.

–¿Y cómo se llama la novela?

–Todavía no lo sé, pero por lo que nos llegó se nota que es ciento por ciento Aira: a un tipo que camina por la calle una calandria le caga en la cabeza y el tipo empieza a perseguirla por la ciudad, mitad para vengarse y mitad por que tiene una fascinación con esa clase de aves, desde la infancia, cuando un tío lo lleva a…

–Bueno, calmate y dejá que la lea cuando la publiques –lo cortó Dante antes de que le contara el argumento íntegro.

–Sí, claro, pero vos sabés lo que significa ¿No? Inaugurar una editorial con un libro de César Aira. Ya tenemos asegurado el prestigio, las reseñas en los suplementos culturales de los principales diarios, y unos 300 ejemplares ubicados de antemano, que ya amortizan la inversión, más la presentación del libro, los contactos, la distribución…

–Disculpame un segundo –Dante interrumpió al verborrágico Joaquín y se fue a separar una dálmata en celo que estaba a punto de acoplarse a un terrier gigante. Dejar que preñen a uno de sus animales sería fatal para su reputación. A su regreso la charla prosiguió:

–¿Pero no era que al final no daban los costos y la cosa se suspendía?

–Sí, sí, ya estábamos echándonos atrás. Viste como están las cosas. Pero con este espaldarazo mis viejos se comprometieron a poner la plata, porque les confirmamos que los gastos mínimos ya están cubiertos y hasta podemos llegar a ganar algo de dinero. Es Aira, ¿Me entendés? Aira, no vos ni yo ni cualquier boludito con pretensiones, es Ce-Sar-Ai-Ra.

–Bueno, bueno, relajate un poco, andá a dormir y a la tarde charlamos.

–Nooo, ni en pedo. Ya hay que ponerse a pensar en el tipo de papel, la tipografía, el diseño de portada. Todavía no tenemos ni el logo de la editorial, es una vergüenza. Me vine hasta acá para contarte la primicia, ahora me encierro a trabajar en casa. Chau, nos vemos.

Joaquín se fue corriendo y dando saltos, tal como había llegado. Dante lo siguió con la mirada hasta que se internó en la calle Superí y desapareció de su vista. Después salió a reagrupar a sus cánidos que en el transcurso de la conversación se habían dispersado y mezclado con los perros de otros cuidadores. Dante juzgaba su oficio de paseaperros como perfecto. Y hablaba con conocimiento de causa. Había incursionado en numerosas ocupaciones. Para ponerlo en claro: la pasión de Dante era la literatura. Y como suele ocurrir en esos casos, no quería trabajar, o quería trabajar lo menos posible como para sustentar sus gastos y vivir sin apremios ni urgencias mientras daba forma a “su obra”. Primero había intentado transitar el camino pequeño-burgués, inscribiéndose en la carrera de letras y tomando un puesto de vendedor en una cadena de librerías. Pero la crítica literaria no le interesaba demasiado y en cuanto a la librería descubrió que allí lo explotaban tan saludablemente como en cualquier otro trabajo haciéndole rendir sus ocho horas diarias hasta la última gota. Para peor, sus conocimientos literarios no le proporcionaban una ventaja apreciable, ya que el noventa por ciento de los potenciales clientes iban en busca de libros de autoayuda, marketing o programación de computadoras. Después llegó la alternativa marginal: no hay que olvidar que Dante era el Enano Más Sexy del Mundo. Y decidió hacer uso de sus encantos naturales. Noche, alcohol, drogas y mujeres maduras con las tetas recién hechas y la cara de moda (mucho colágeno en los labios, los pómulos salientes y redondos, la mandíbula marcada con tirante delgadez). Sus “clientas” lo invitaban a viajar por el mundo, recibía regalos lujosos y vestía como un dandy. Pero entre tanta noche, alcohol, drogas y sexo pago, apenas le quedaban ganas de escribir. El reviente no era lo suyo (sentía aversión por Bukowski) y no poseía la entereza física como para reponerse y dedicar unas pocas horas de sobriedad a un gran relato, como Malcolm Lowry y otros tantos escritores alcohólicos. Lo intentó, a pesar de todo, con un volumen que llevaba el nombre provisorio de “Memorias de un Enano Gigoló”, pero cuando encontraba algún escaso momento de paz, siempre era sorprendido por su clienta de turno “Ah, también escribís, que enano divino” y le hinchaban las pelotas a más no poder “A, ver, a ver que escribe mi enano lindo”. Le terminaban arrancando el manuscrito de las manos y se detenían a cada línea a preguntar que quería decir tal o cual cosa, hasta que indefectiblemente llegaban a la parte donde Dante las describía y entonces era el fin de la relación profesional. Hasta que un buen día se sinceró: no podía seguir así. Era una triste paradoja: él era un marginal para la vida pero un pequeño burgués para la literatura. Estaba deprimido. Finalmente tomó la arriesgada decisión de abandonar su “trabajo” sin tener conciencia cierta de cómo se ganaría la vida de allí en más. El oficio de gigoló pagaba bien y con sus ahorros Dante pudo comprarse una casa en el barrio de Saavedra, sobre la calle García del Río. Pronto descubrió que su casa estaba tan solo a dos cuadras del Parque Saavedra, ventaja de la que decidió sacar provecho, trasladándose a leer allí todas las mañanas, bien temprano. Hasta aquí todo bien, pero tenía ahorros para dos meses. O encontraba un trabajo rápido o se moriría de hambre.

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*Ariel Idez nació en Buenos Aires en 1977. Es licenciado en Ciencias de la comunicación (UBA). Ha escrito, entre otro, sobre Roberto Bolaño, Osvaldo Lamborghini, Néstor Sanchéz, Ricardo Colautti y Nestor Perlongher en Radar y el suplemento cultural del diario Perfil. Autor de Literal. La vanguardia intrigante (Prometeo, 2010), No vas a ser astronauta (Pánico el pánico) y La última de César Aira (Pánico el pánico, 2011)

Nota original: http://fundaciontem.org/la-ultima-de-cesar-aira/

Balance a mitad de camino │ Revista Ñ

Escritores, críticos y editores jóvenes eligieron el mejor libro argentino publicado este año. El resultado arroja luz sobre el gran momento de las editoriales independientes.

por Mariano Canal para Revista Ñ │ Agosto de 2012
Las afinidades electivas.
La consigna de esta consulta, muy simple, fue elegir un libro de ficción argentino publicado en esta primera mitad del año 2012. Los destinatarios de la pregunta fueron escritores, críticos y editores jóvenes (el corte, arbitrario como siempre, fue entre aquellos que conforman el universo de los ‘sub-40’). Más que un sondeo con pretensiones exhaustivas y de largo alcance sobre el estado del campo literario argentino, la intención –más modesta– era ver cómo se trazaba un mapa de las afinidades electivas (que siempre son, también, elecciones afectivas) entre buena parte de los narradores y productores culturales jóvenes que, ya cruzando la frontera simbólica, determinante y peligrosa de los treinta años, acceden con fuerza y por distintas vías a la publicación y circulación editorial de sus obras. La que sigue es, entonces, una serie de notas sobre lo que las respuestas a esa consulta puede decirnos sobre las preferencias, los estados de la imaginación literaria, las formas de circulación y renovación generacional en un sector dinámico y heterogéneo del campo literario argentino. Tentativas alimentadas con el insumo del cruce de las preferencias de los propios protagonistas que no pretenden ser más que una foto instantánea (movida, tal vez; fuera de foco, seguramente) de un estado de las elecciones literarias que se entrecruzan aquí y ahora.
Empecemos por los libros de ficción más mencionados entre los consultados. Entre ellos están Can solar de Carlos Godoy (17 grises), Un publicista en apuros de Natalia Moret (Mondadori), La última de César Aira de Ariel Idez (Pánico el pánico), y El viento que arrasa de Selva Almada (Mardulce). Estos libros reunieron, individualmente, buena parte de las menciones. Pero el dato más saliente es la dispersión de las elecciones, no ya la ausencia de una unanimidad o de un consenso fuerte edificado en torno a una o dos obras, sino más bien un panorama dominado por una galaxia de títulos disímiles y con pocos puntos de contacto. Así, junto a estos títulos también fueron mencionados muchos otros  autores que dibujan la geografía compleja y movil de una escena en construcción permanente, de la cual en buena medida son responsables las editoriales independientes. Vayamos de a uno repasando los títulos que se hicieron con las menciones suficientes como para despegarse –por muy poco– del resto.

Un publicista en apuros, la primera novela de Natalia Moret (Buenos Aires, 1978) es un thriller nocturno y urbano que con ritmo acelerado corre a la misma velocidad tanto por las calles de la ciudad como dentro de la cabeza de su protagonista, un treintañero cínico y ambicioso impulsado por el consumo de cocaína y la búsqueda de una salvación que siempre se escapa más rápido de lo que él alcanza a llegar, y que se obstina en no estar ni en los nuevos negocios, ni en el amor, ni el sexo, ni la huida. Es la narración de un hombre en caída libre, un poco como en la secuencia de títulos de la serie Mad Men, donde la silueta negra del publicitario se precipita desde las alturas del éxito entre imágenes de mujeres hermosas y traidoras, mercancías de alta gama y “superficies invitantes” pero letales. Una novela negra sobre la paranoia, la culpa, la lucidez artificial y las geografías hostiles donde los pobres y los ricos compran, venden, matan y mueren.

El viento que arrasa de Selva Almada (Entre Ríos, 1973) es también una primera novela. En este caso, el clima está lejos de los entornos urbanos; más bien, se trata de una novela con una atmósfera que se aproxima a un gótico de provincia donde cuatro personajes (un pastor protestante y su hija; un mecánico y su ayudante adolescente) que se cruzan accidentalmente en medio de una ruta desolada del Chaco traman entre sí durante un largo día un intercambio tenso, lírico y esquivo de vidas definitivamente rotas (la de los adultos) y existencias desesperadas por escapar de ese paisaje abrumador y repetitivo, en el caso de los personajes adolescentes. Cuatro vidas clavadas en un paisaje denso, palpable, material, por donde sobrevuela la locura religiosa, el abandono y la inminencia de un fin que no termina de llegar.

Can solar, de Carlos Godoy (Córdoba, 1983), es un conjunto de cinco relatos unificados por un clima donde se entrecruzan la incertidumbre, la irrupción de la maldad o la locura y lo inesperado, todo enhebrado con una escritura seca, sólida y sustentada en personajes que dibujan estados mentales que van y vienen entre la confusión, la inercia y el estallido de algo que nunca se nombra explícitamente. Puede ser un hombre varado en el limbo de un accidente cerebral, una estudiante de medicina que manipula los huesos de un esqueleto legado a la ciencia en el silencio de una estancia vacía o unos chicos  que buscan evidencias de una supuesta presencia extraterrestre durante un verano extenuante de provincia. Can solar es también el primer libro de relatos de Godoy, quien en 2007 había publicado la notable Escolástica peronista ilustrada, un largo poema que primero circuló en Internet y que armaba un alfa y omega de todo aquello que puede ser ligado al peronismo, de todo lo que puede ser nombrado y englobado en sus contradicciones, en su picaresca plebeya, en su violencia, en su imposibilidad de ser definido de una manera única y estable.
La última de César Aira es también la primera de Ariel Idez (Buenos Aires, 1977). El juego de palabras está en línea con lo que Idez hace al escribir una novela donde los procedimientos de esa maquinaría narrativa que es Aira quedan en primer plano, expuestos a la luz de un relato donde por supuesto están presentes todos esas marcas que constituyen el estilo Aira: los personajes excéntricos que le escapan a la psicología, las derivas delirantes, lo extraordinario apareciendo por entre superficies coloquiales y cotidianas, el tono ligero y acelerado. Una operación no de copia sino de apropiación de un estilo ajeno para doblarlo sobre sí mismo, para mostrar que el arte de la novela edificado desde algunos bares del barrio de Flores también puede volverse en manos de otro sobre su propio creador. Una novela que demuestra que ni siquiera un escritor como Aira, que con su estrategia editorial desbordada y múltiple se disemina en decenas y decenas de novelas que llevan su firma, puede escapar de ser apropiado, reformulado y reempaquetado. Y, como se sabe, en el mundo actual ese es un destino al que están expuestos todos los productos humanos, aun los más artesanales y personales.

Hacerse de abajo

Reseñados brevemente estos libros, se puede pensar una serie de puntos que las elecciones de los narradores que respondieron la consulta de Ñ van dibujando. En primer lugar hay una correspondecia generacional entre los autores que recibieron menciones y aquellos que contestaron. No son autores “consagrados”, más bien se trata de jóvenes que llegaron relativamente hace poco tiempo a las instancias de publicación, muchas veces por caminos disímiles: antologías de cuentos, la autopublicación en blogs, la circulación más restringida de los grupos de amigos y colegas, los ciclos festivos de narrativa en vivo. Caminos ajenos a un cursus honorum profesionalizado, que lógicamente, se corresponde con un mercado editorial literario mínimo y menguante, especialmente en lo que refiere a los sellos editoriales mainstream. Lo que sobresale, entonces, es esa identidad generacional y novel (como excepción, por ejemplo, fue mencionada, sí, la última novela de César Aira, Festival, editada por Mansalva) trabada en los intercambios cara a cara que se dan todo el tiempo en las diversas escenas por donde se entrecruzan los narradores jóvenes o en esas asociaciones de solidaridad mutua surgidas al calor de proyectos culturales comunes sustentados en la amistad y la escasez de recursos económicos. Aunque por supuesto hay casos que escapan de este marco, el de Selva Almada, residente en Entre Ríos es uno; el de Gonzalo Garcés (mencionado por su última novela El miedo), que vive fuera del país desde hace muchos años es otro. Y en todo caso, la etiqueta generacional siempre es más equívoca de lo que parece a simple vista y lo que se resguarda bajo ese paraguas incluye una variedad de sensibilidades, estilos, temas y trayectorias vitales muy heterogéneas. Los cuatro libros reseñados en forma breve más arriba pueden servir como una muestra de esto último.

Hay sí una presencia clara de libros editados por sellos pequeños, independientes o más bien alejados de la lógica cruda del mercado. Editoriales armadas por escritores o críticos, muchas veces por grupos de amigos o afines que buscan generarse espacios propios para darle visibilidad a su producción literaria o para cultivar con cuidado catálogos breves pero  atentos a estéticas que no encuentran cauce por las vías habituales de las grandes editoriales locales, las cuales, además, pasaron durante los años 90 por un fuerte proceso de transnacionalización. La galaxia de editoriales independientes es, por eso mismo, uno de los tantos frutos no envenenados del árbol de la crisis económica de principios de siglo, que encontró en el siempre fértil y activo microcosmos literario argentino un medio proclive para multiplicarse. Un escenario de sellos de diverso tamaño pero donde las relaciones entre autores y editores (y también lectores, todos los factores se superponen) se dan cara a cara y que funciona ampliando las perspectivas de publicación para muchos escritores que en un mercado más profesionalizado y sometido más directamente a las estrategias puramente comerciales verían bastante lejana la posibilidad de llegar a imprenta. Nunca fue, en cierto sentido, tan facil publicar, aunque el horizonte de lectores potenciales se restrinja y se solape (casi) con el de los propios autores.

Entonces, fuerte presencia de las editoriales hechas a pulso de dedicación personal, intensa y entusiasta, a la búsqueda de escrituras que no encuentran otros lugares en una industria en la cual el espacio de la literatura se empequeñece. Es posible y necesario mencionar algunas de las que surgen de las respuestas de los consultados para esta nota: Pánico el pánico, Wu Wei, 17grises, Mardulce, Mansalva, Eduvim, Mancha de Aceite. Un mapa de una literatura seguramente más dificil de encontrar en las mesas de las cadenas de librerías pero que ha producido buena parte de lo más interesante que se puede leer hoy, aquí y ahora.

Nota original: http://archive.li/aHica

El extraño mundo de César Aira │ La Voz

El escritor argentino llama “novelitas” a los libros que salen sin pausa de su original máquina narrativa. Recientemente publicó cuatro títulos en distintos sellos y reeditó una nouvelle clásica. Hace años decidió no hacer declaraciones a los medios nacionales.

por Malena Rey para La voz │ Abril de 2014

¿Cuántos libros de César Aira tiene usted en su biblioteca? ¿5, 10, 24, 47, 62? Aunque se trate de un número apabullante en relación con otros autores que se acumulan en los estantes con fanatismo, en el caso del escritor argentino es imposible hacerse de sus obras completas. No existe tal cosa. Y parece que nunca va a existir, porque si en algo consiste su originalísima apuesta literaria es en hacer proliferar su máquina narrativa poniendo al mismo nivel libros de distinta extensión y calibre, desordenando las pistas que traten de perseguirlo entre sus historias, diseminando sus publicaciones en una gran cantidad de sellos. Y entonces ocurre que no podemos medirlo, ni clasificarlo. Aunque sean breves, no damos abasto para estar al día con el ritmo de sus apariciones–tal es el absurdo que un joven escritor, Ariel Idez, escribió una novela titulada justamente La última de César Aira.

La única certeza es el continuo, parece insinuarnos, arrojando sus “novelitas” al mundo como una forma de poner ante los lectores el placer de la escritura por la escritura misma, de retardar el punto final, de evitar la complacencia de las obras exhaustivas a las que muchos aspiran. Aira se escapa, se escabulle. Y a la vez está más presente y vivo que ningún otro escritor de su generación.

Diferencia y repetición

Decidido hace años a no hacer declaraciones en los medios nacionales, pero a la vez lúcido comentarista de su obra y de sus procedimientos, Aira se expresa elocuentemente en la prensa extranjera. Y aunque no haya asistido al Salón del Libro de París, el mes pasado, sin ir más lejos, apareció el video de una entrevista realizada para el Museo de Arte Moderno de Dinamarca en la que el escritor danés Peter Adolphsen le sonsacó varias opiniones provocadoras: “Soy de los raros escritores a los que les gusta escribir. Descubrí que muchos quieren ser escritores por los beneficios sociales que les representa, pero no les gusta escribir. Yo escribo todos los días por placer. Escribo poco cada vez, pero el año tiene muchos días, entonces son 300 ó 400 páginas por año, que en mi caso pueden ser tres o cuatro libros”, dice Aira con voz pausada y parsimoniosa, para después agregar que “cuanto más gordo el libro, menos literatura tiene”, sabiendo que se prestará a la polémica y haciendo las salvedades del caso. Y agrega: “Con el tiempo fui reduciéndome hasta encontrar este formato de las 100 páginas que es el adecuado para el tipo de historias que se me ocurren a mí”.

No hay dudas de que esas “novelitas”, como les dice él, son las que mejor condensan el pulso de sus textos, las que con la magia de lo breve son tan liberadoras como originales y sorpresivas.

A su vez, esas historias o argumentos salpican todo el mercado editorial. Aira es en este sentido un ejemplo completamente singular de cómo se puede publicar en distintos catálogos y sellos de mayor o menor tamaño conservando siempre la autonomía, sin casarse con nadie. Y esto hace que, por ejemplo, sus novelas situadas en Coronel Pringles (por mencionar sólo una de las zonas aireanas en las que podría organizarse su obra) aparezcan y desaparezcan intermitentemente del continuo de su producción, como un motivo que vuelve.

Aira se escapa, se escabulle. Y a la vez está más presente y vivo que ningún otro escritor de su generación.

A esta serie se suma recientemente el extraño Tres historias pringlenses, un delgado volumen que inaugura la Colección Jorge Álvarez de la Biblioteca Nacional; y decimos extraño porque las historias en verdad son cuatro, y no cuentan con su habitual marca (la fecha de finalización consignada por el autor en la última línea de cuanto libro suyo se publique).

El testamento del mago tenor también acaba de aparecer, y es una novela algo más convencional que transcurre entre Suiza y la India, en la que la abigarrada imaginación del autor está puesta al servicio de la acción y los desplazamientos del personaje –y no así de su psicología–, publicada por el sello Emecé, que viene alimentando la Biblioteca César Aira con novedades y reediciones. Y también entregó la bella y conmovedora historia de amor adolescente Margarita (un recuerdo), publicada por Mansalva, la editorial de su amigo Francisco Garamona, que ya cuenta con varios de sus mejores títulos, y con una colección en su librería porteña de las obras de Aira traducidas a muchas lenguas.

Por si fuera poco –como nos tiene acostumbrados, Aira es desmedido–, acaba de editar también el excelente Continuación de ideas diversas, un compendio de apuntes, reflexiones y breves notas en el importante sello chileno de la Universidad Diego Portales. Un libro que viene a demostrar que, además de tener gran inventiva, Aira es sobre todo un lector agudo y persistente, que sigue enamorado de los poderes de la literatura, y que reflexiona lúcidamente sobre distintas tradiciones estéticas y prácticas artísticas que le interesan en particular sin por eso encasillarse en ninguna de ellas.

Entre la proliferación, la imaginación, el humor y el formato, todos los caminos nos llevan a una escritura singular, a un estilo inconfundible, y a un autor activo, descollante y necesario. No hay que darle muchas vueltas: Aira es tan particular como inexplicable.

 

Nota original: http://www.lavoz.com.ar/ciudad-equis/el-extrano-mundo-de-cesar-aira

“La última de César Aira”, de Ariel Idez │ Barcoborracho

por Ever Román para Barcoborracho │ Marzo de 2012
Una vez Ariel Idez nos contó que había dado a leer su novela al mismísimo César Aira. La respuesta del ilustre escritor de Pringles, tras leerla, fue la siguiente, según relata Idez:
«le dedicó un elogio borgiano: ‘Muy instructiva –dijo– parece una novela mía, pero escrita en prosa
Quizá sí hubo intención de tributo, gesto de amor, algo por el estilo, en el proyecto de la escritura de Idez, no tengo dudas, para escribir una novela al estilo del escritor de Pringles. Lo que en definitiva no creo que haya habido en ningún momento -por más que le quieran decir borgiano-, es un atisbo de elogio en las palabras de Aira; sino más bien iracundia, desesperación, ¡desamparo absoluto! ¿Qué otra cosa si no puede hacer que un escritor -que suele hacer gala de sentido del humor campechano e ironía refinada- caiga tan bajo como para emparentarse sin intermediación con la poesía? “Tu libro no tiene poesía, como sí la tienen los míos”, es el reverso de lo que le dijo a Idez; o bien: “Solo yo sé hacer poesía”, o acaso: “Por más que me copies no podrás hacer poesía”, etc.
En este novela no hay imitación de un estilo, sino suplantación de un autor por otro.
El proyecto de Aira es una revisión de la vanguardia, del modernismo, del gesto más que la obra, cuya consecuencia no es una obra -o al menos no su objetivo- sino el propio acto de hacerla, el mecanismo de fabricación original que crea autor, y esto lo convierte en sujeto artístico, o más precisamente en un su-gesto artista: un nombre, una firma. Aira puso de moda nuevamente el mito del autor, lo re-vivió. Lo que labró su obra, su resultante, no fueron 70 o más novelas, sino al César Aira sí mismo, ¡el propio!
Y aquí es que el gesto de Idez fue un acto completamente destructivo, un atentado terrorista desde los cimientos. El mingitorio de Duchamp no es solo un mingitorio, sino la mano del artista estampando su firma, y con este acto se crea a sí mismo -y re-crea el arte moderno- y transmuta un simple mingitorio en la obra más influyente del siglo. Imaginensé que algún cuidador de museo, un estudiante, una maestra aburrida, va hasta la sala en que está expuesto el Mingitorio de Duchamp, se saca del bolsillo un marcador indeleble, tacha el nombre de Duchamp y ¡pone encima el suyo! ¡Sacrilegio! ¡Transmutación de la transmutación! ¿Qué veríamos si vamos, por ejemplo, al museo en que está expuesto este mingitorio y vemos allí una firma que dice: ¡J. Wachovsky, Mariela González o Igor Popov! O todavía peor: “Fabricado en Pilar, Prov. de Buenos Aires
Lo que hizo Ariel Idez fue precisamente eso: desadjetivó la novela de César Aira y la transmutó estampando en ella su firma. Desalojó al escritor de Pringles y lo mandó quién sabe dónde. Como si le hubiera dicho: no hay autor, solo hay un estilo -mingitorio- al que le pusiste tu firma, pero ahora allí está la mía.
Nota original: http://barcoborracho1871.blogspot.com/2012/03/la-ultima-de-cesar-aira-de-ariel-idez.html

Fuga y misterio de César Aira │ Revista Ñ

Ya casi nadie discute la centralidad del escritor argentino en la tradición literaria. Sin embargo, sigue siendo un problema para el canon. Martín Kohan analiza aquí sus gestos y su obra mientras se publican sus “Relatos reunidos”.

César Aira (Gabriel Peicot)

por Martín Kohan para Revista Ñ │ Junio de 2013

En mayo de 1996, en el C. C. Ricardo Rojas, César Aira dictó un curso sobre Alejandra Pizarnik. Esas clases, al igual que tantas otras cosas que tocan la vida de Aira, tendrían un destino de libro: cinco años después, aparecían publicadas por Beatriz Viterbo. Quienes hayan asistido a aquel curso habrán advertido sin dudas, y sin dudas recordarán, que César Aira lo dictó, en su mayor parte por lo menos, casi sin alzar la vista. Dio el curso entero manteniendo la mirada baja; sus ojos, reticentes, parecían no buscar, pero sí encontrar, algún objeto donde detenerse aproximadamente entre sus pies, o en el borde más cercano de su mesa, o en algún punto suspendido medio metro más allá del escritorio. Habló así las cuatro clases, sin levantar mayormente la mirada; y cuando lo hizo, no la dirigió a los asistentes, sino a un lugar indefinido, y acaso indefinible, situado en la parte superior de la pared del fondo del aula, si es que no en un rincón del techo, y en cualquier caso por encima y por detrás de todos nosotros, los que lo mirábamos y lo escuchábamos y anotábamos reflexivamente las cosas que él iba diciendo.

Los ojos bajos, demasiado acá, o bien levantados, pero demasiado allá, definieron la tesitura de Aira a lo largo de ese curso sobre Pizarnik. Y tal vez pueda decirse que hay en eso una clave general sobre su manera de proceder, o de estar, o de escribir sus libros y de escribir su obra. En Aira suele verificarse esa combinación singular de un “muy acá” y un “más allá”, entendiendo que lo que “muy acá” designa es un apego a la coyuntura más inmediata, por trivial que parezca, o sobre todo si es trivial; y que lo que “más allá” significa no es ninguna clase de trascendencia más o menos inspirada, sino una forma visceral de ruptura y de desborde, una manera radical de salir y exceder, un gusto por irse sin dejar de estar del todo, por inventarle un afuera al mundo que en principio no parecía admitir un afuera. Aira escribe a menudo sus novelas muy atadas a ese acá, es decir a una realidad inmediata con anclaje en lo concreto, a sitios reconocibles, a figuras de la historia, a las cosas que se tienen más a mano. Subrayan esa dimensión porque se nutren de su total contingencia (de su contingencia más que de su representatividad social, por eso no hay ningún realismo en Aira): una calle cualquiera de Flores, un bar cualquiera de Rivadavia, una plaza en Pringles, un seminario fallido en Rosario. Esa opción por lo coyuntural se refuerza a veces con personajes de carácter referencial, como Rosas o Rugendas, como Carlos Fuentes, Aira o Alberto Giordano.

Literatura de lo contingente, entonces, más que de lo real, Aira compone sus novelas con materiales de aprobada intrascendencia (y le importa esa intrascendencia más que una posible tipicidad). Pone todo “muy acá”, muy sujeto a coyunturas; pero a esa contingencia intrascendente (que sus detractores, por error, llaman pavada) la va sometiendo a un prodigio de descalabro y demasía (que sus detractores, por error, llaman disparate): todos esos materiales tan próximos y tan palpables, tan situados muy acá, se van viendo proyectados o se van viendo atraídos por variantes de un más allá que, lejos de cualquier metafísica, se concreta en un rayo que cae de repente, o en un ovni que se acerca a ejecutar su abducción, o en una catástrofe final que acaba con la Argentina, etc. No es cierto que Aira arruine sus novelas, como le han dicho, ni que no sepa cómo terminarlas, como ha dicho él; sino que la plena contingencia de ese acá tan cercano (el de la mirada baja) no puede sino resolverse en la desmesura de diversos más allá (los de la mirada que se alza, pero menos para mirar que para poder ponerse en fuga).

¿No puede decirse acaso que eso mismo que ocurre en cada una de sus novelas es lo que sucede también entre todas las novelas, vale decir en el nivel de la obra? Un pasaje vertiginoso desde la total contingencia hacia la total desmesura. Hace un tiempo se publicó una encuesta entre escritores y críticos sobre la novela de Aira que cada cual prefería. Que casi no haya habido coincidencias puede explicarse ante todo por razones probabilísticas, porque es menor la chance de coincidir cuando el conjunto a considerar es tan numeroso. Pero cabría suponer también que cada uno de los encuestados podría ya no coincidir consigo mismo si volviesen a hacerle la encuesta dentro de un tiempo (yo mismo, si me consultaran, podría decir El Tilo , otras veces Cumpleaños , otras veces La luz argentina , etc.). Porque cada novela por sí misma es en cierto sentido contingente, y él parece haberlas concebido así y escrito así; pero, al proliferar y diseminarse, al crecer y desbordarse, forman una figura incomparable. Y monstruosa, si se quiere, pero en ese sentido apreciable que asume el término en sus propios textos: un continuo de lo cualquiera en lo excepcional, como ocurre sin ir más lejos con su liebre.

Sus novelas hacen eso: comienzan en lo cualquiera y derivan hacia lo excepcional. Hasta fundir una cosa con la otra: esas novelas, contingentes, tocan a la vez algo del orden de lo imprescindible; al disponerse en forma de serie, derivan hacia lo fuera de serie. Cada una de esas novelas puede gustar o no gustar, leerse o saltearse, atesorarse u olvidarse; la desmesura de la obra genial hace de cualquiera de ellas una obra maestra eventual. Una obra como la de César Aira, que renuncia por definición a ser nunca una Obra Completa, ofrece su resistencia a cualquier estabilización (por eso ya no se puede leer del todo a Aira, porque para eso habría que leer solamente a Aira; pero tampoco parece posible salirse del todo de Aira, dejar de leerlo del todo, porque siempre se está cerca de volver y leer alguna otra de sus novelas). Cualquier libro de los suyos, no importa si predilecto o relegado, se diluye en el montón y a la vez conserva su singularidad; por eso no es tan fácil repetir a Aira (ni él mismo a sí mismo ni tampoco los otros, aunque haya quien dice que el problema de Aira es que se repite, aunque haya quien dice que el problema de Aira es que lo repiten sus imitadores).

¿Cómo se puede entonces dar cuenta de César Aira? No estoy seguro. A manera tentativa, propongo cuatro libros que acaso sirvan de coordenadas. Uno solo de los cuatro pertenece a César Aira, y es el Diccionario de Autores Latinoamericanos : habría que conjeturar cómo sería la entrada “Aira, César” en un volumen de esas características. El segundo libro que propongo no existe, o existe sólo de manera virtual: lo integrarían las sucesivas reseñas bibliográficas de cada una de sus novelas, o sea un compendio de las lecturas de contingencia ante la contingencia de la publicación de cada uno de sus libros, y por ende un mapa cronológico del desconcierto, la admiración, la desaprobación, la diatriba, el embeleso, que su escritura en transcurso ha ido produciendo. El tercer libro sí existe, lo escribió Ariel Idez y se llama La última de César Aira : Idez retrotrae la expansión plural de la obra de Aira a la escala del solo libro, convierte la máquina aireana de hacer tramas en una trama aireana, captura su dispositivo en una novela para descifrarlo y revertirlo y no dejarlo conquistar la pluralidad de las muchas novelas, o bien todas las novelas, y por fin la literatura misma. El cuarto libro es de crítica literaria: se llama Las vueltas de César Aira y lo escribió Sandra Contreras. Ella sí que leyó todo Aira. Aunque no lo haya leído todo: lo leyó todo porque lo entendió todo, lo leyó todo porque lo entendió por entero. Vio la forma de lo que parecía informe, el estilo impar de lo que se quiso dar a ver como mal escrito, vio el método de lo que se declaraba delirio, vio un sentido en el sinsentido; y lo hizo sin reducciones ni traiciones a la diversidad. El libro nos revela a un Aira integral, tanto que hasta podría decirse que aun los libros que Aira va escribiendo después del de Sandra Contreras son anteriores al de Sandra Contreras.

En Los misterios de Rosario , Aira incluyó a Sandra Contreras, la puso como un personaje que estaba engendrando un monstruo: lo cualquiera extraordinario. Ella le contestó con la misma moneda, si es que no era a este mismo libro a lo que se estaba refiriendo él.

Nota original: https://www.clarin.com/edicion-impresa-n/titulo_0_BkE–EPiwmx.html

La última de César Aira │ Salvetti’s World Review

por Claudio Salvetti para Salvetti’s World Review │ Mayo de 2017
Hace mucho que no leía nada de literatura Argentina, en parte porque no sabía qué, quería salir del Pentateuco – Borges, Cortazar, Arlt, Marechal, Casares- y no tenía idea de para donde encarar sin pasar por esa segunda línea que para mí es Eloy Martinez, Guillermo Martinez, César Aira, Piglia, Saer y Rawson.
Pedí consejo y para mi sorpresa me recomendaron muchísimas cosas, elegí empezar por el que parecía menos pretencioso, porque esa es mi mayor crítica a la literatura Argentina, me parece que todos quieren ser el nuevo Borges, pocos aspiran a ser el primer Stephen King.
Así que repasé los títulos … ¡éste no puede fallar!. La última de César Aira, Ariel Idez para eidtorial Pánico el Pánico.
La obra se lee cómo una comedia con referencias intertextuales a la literatura de Aira, donde Aira es el villano; o una novela escrita con el método de Aira donde hay escritas otras obras con el método de Aira donde…  recursividad al infinito.

Es un thriller que trascurre en el laberintico Bajo Flores de Aira, dónde el autor eleva la apuesta capítulo a capítulo. Idez se da el gusto de hasta hacer un poco de crítica literaria Argentina, comedia política, homenajear a algunas figuras, … en fin, es un cuento Chino en territorio Argentino (si, se parece un bastante a La Guerra de los Gimnasios).

La verdad es que me resulta imposible no querer un libro capaz de reproducir:

El Enano Más Sexy del Mundo y el Típico Puto Nazi se conocían desde el jardín de infantes, lugar donde se forjan las primeras y más perdurables amistades. En esa época, ni el Enano era tal, pues estaba a la altura de los demás niños, ni el Puto había definido su identidad sexual, aunque sí ya era un poquitín nazi en su gusto por maltratar a sus compañeros y liderarlos con mano férrea en toda clase de tropelías.

O cuando van al Barrio Chino:

Pero mayor aún fue su sorpresa cuando leyó el cartel metálico que anunciaba en perfecto castellano: “CENTRO DE RESIDENTES TAIWANESES JUSTICIALISTAS DE LA REPÚBLICA ARGENTINA” Debajo de esta enigmática inscripción podían apreciar claramente dos grandes escudos: uno de ellos contenía las banderas de Taiwán y la República Argentina; el otro, claro está, pertenecía al Partido Peronista. El cartel guardaba otra extraña particularidad: era el único que no estaba escrito en chino, tan sólo en castellano. Ni un mísero ideograma sobre la chapa ( Tal vez, pensaba el Enano, un solo ideograma bastaría para describir el nombre y las funciones de la institución, así de económica podía resultar la lengua oriental, pero ¿qué ideograma -se preguntaba- podría contender en sus filigranas la noción de “peronismo”?)

A pesar de estar escrita en tono de broma, Idez escribe en profundidad y combina muy bien los dos elementos en varias ocasiones. Por ejemplo, cuando el Gurú escuchando atentamente al Enano más Sexy del Mundo le dice:

– La suya es una metáfora poco feliz, pero de todos modos la comprendo… Bah, en realidad no comprendo nada puesto que ya sabemos: “no se puede comprender”, pero eso es todo lo que es el caso, es decir, el mundo, y no una muestra histológica del tejido que conforma la superficie del discurso como el que usted expone, pero basta, en fin, con estas disquisiciones tan poco afines al género dialógico, comprendo. Por lo tanto, atengámonos básicamente a la ficción del sentido, su punto. Estamos hasta las bolas.

Y después se pasa cuando el Taiwanes Justicialista le cuenta a Dante, demostrando sus conocimientos de filosofía política y modismos argentinos:

– Ustedes, occidentales, cabezas necias. Se creen lo más huachi pulenta (como dicen acá) y son (acá gustan decir) unos giles de cuarta. Inventaron capitalismo, muy bien. Inventaron comunismo, los felicito. Pero olvidan que Imperio Chino se inventó a sí mismo y eso sí que fue un parto. Y los Chinos, con sus inventos de occidente, ¿qué hicieron? ¡Economía Social de Mercado! Chiva calenchu (como dicen…). La síntesis de maestro Hegel, señor. La historia culmina, de cajón, en Astucia China.

Confieso que a mi gusto, el último capítulo no estuvo a la altura del resto del libro, en parte porque lejos de ser poco pretencioso este resulta ser uno de los libros más pretenciosos de toda la literatura Argentina y necesita un final a la altura. Pero se le perdona todo a un libro capaz de plantear el uso del Justicialismo como última barrera de defensa frente a la invasión China. Imaginense, en plena plaza Tiananmen, millones de chinitos al grito de “¡Ni Yanquis ni Maoístas: Peronistas!
La última de Cesar Aira es el Plagio más Original del Mundo y lectura obligatoria para todo el que quiera escribir algo en esta tierra y dejar de ser eco de escritores pasados.
Nota original: http://salvettiwr.blogspot.com/2015/05/la-ultima-de-cesar-aira.html

Idez: La última estación de César Aira │ Río Negro

Télam │ Junio de 2012

En “La última de César Aira”, el escritor Ariel Idez ensaya una novela en clave de epígono, que bajo esa excusa, amenaza la hegemonía de los procedimientos narrativos del autor de “El náufrago” llevándolos al extremo (y ridiculizándolos), operación imposible de fraguar sin la admiración confesa de Idez por el propio Aira.

El libro, publicado por la editorial “Pánico el Pánico” (en su colección Potlach) que dirigen Marina Gersberg y Luciano Lutereau, ya va por la segunda edición y figura entre los top ten semanales de la librería-editorial “Eterna Cadencia”.

En conversación con Télam, Idez reconoce que “la lectura de Aira lo empujó a escribir una novela aireana, pero dando una vuelta de tuerca sobre sus procedimientos (los de Aira)”.

“Escribir es uno de los efectos que produce la lectura de Aira. En ese sentido, resultó interesante darle a esa pulsión una vuelta de tuerca. Escribir una novela que se hiciera cargo de la herencia (de Aira)”, agregó este especialista en Comunicación por la Universidad de Buenos Aires (UBA).

Idez asegura que “de todas las novelas escritas por sus epígonos, ninguna se hace cargo de la cosa aireana”. La leyenda cuenta que Aira leyó “La última…” y sin demasiado entusiasmo le dijo a su autor que estaba bien pero “que le faltaba poesía”.

“Pánico el Pánico” es una editorial independiente, que apuesta a la circulación de autores nuevos, cuidado en el tratamiento de los textos y apertura a formatos menos deudores de la marea de los 90, hija de los 80 tardíos. Entre sus autores, Pablo Farrés, Carlos Godoy, Matías Pailos y Sebastián Robles, entre otros.

Idez cree que “la literatura argentina continúa dividida entre los seguidores de Aira y los de (Juan José) Saer”, con algunas variantes, entre los que distingue a Ricardo Strafacce, el autor de la biografía de Osvaldo Lamborghini, que hace unos pocos días presentó “La última…” y trató al autor de manera laudatoria.

“A mí me interesa mucho la literatura de J.P. Zooey, la de (Osvaldo) Lamborghini, la de (Juan Rodolfo) Wilcock, la de Germán García y últimamente, la de Hebe Uhart”, enumera, sin distinguir jerarquías.

Pero ¿de qué va “La última…”? Porque en una primera lectura, los personajes, la excentricidad de sus prácticas, cierto aire disparatado y ciertas soluciones “filosóficas” resuenan como un homenaje a Aira. Y en otros momentos, el texto satura al lector con la omnipresencia del mismo Aira.

Idez dice que compuso el libro porque le parecería “muy ingenuo seguir escribiendo a la manera aireana. Escribí esta novela para cerrarme a mí mismo ese camino”. Y uno no sabe bien qué escuchar en esa afirmación.

Si se tiene en cuenta otra leyenda que atraviesa el universo Puán (sede de la facultad de Filosofía y Letras de la Universidad de Buenos Aires): que Aira es el (Jorge) Bucay de Puán.

Y que la estrategia de entregar originales escritos en horas de la mañana en los bares de Flores, a razón de cinco o seis por año y entregar al menos tres a editoriales pequeñas, es una antigüedad anterior a la difusión de las redes sociales.

Así las cosas, Aira podría ser un personaje de “La última…” (si no lo es), al contrario del efecto inercial de Borges, Fogwill o Héctor Viel Temperley: sus textos no producen epígonos al riesgo del plagio, con el que esta novela juega todo el tiempo.

Sin embargo, aclara Idez, “sin dudas, la última bestia sagrada de la literatura argentina es César Aira. No apareció otro escritor que tenga una obra de esa densidad y ese peso desde la muerte de Saer”.

Imposible estar en desacuerdo. La lectura de la novela también permite preguntarse -como hace en una reseña Juan Terranova- qué es lo que será capaz de escribir Aira después de Idez y por inversión de la astucia, de qué será capaz Idez después de Aira. Si la cuestión es o no es un problema habrá que leerlo en un futuro no demasiado lejano. (Télam)

Nota original: https://www.rionegro.com.ar/sociedad/idez-la-ultima-estacion-de-cesar-aira-KYRN_908828